I weekend come gli altri

“Aveva creduto che la tristezza sarebbe diminuita secondo una progressione aritmetica, in modo graduale ma costante: un viaggio eterno ma sicuro. (…) Il suo vaggio invece non era così: ogni volta si ritrovava aggrappato ai cancelli chiusi della città vuota.”

Il weekend di Peter Cameron (edito da Adelphi), pur essendo stato pubblicato nel 1994, sotto molti punti di vista sembra un romanzo più compiuto, levigato e profondo del più recente Coral Glynn, che in confronto sembra più patinato, distaccato, in qualche modo insicuro. Per certi versi in questa breve opera degli esordi Cameron sembra più vicino alla sua vena letteraria più propria, quando parla di omosessualità, depressione, lutti, il legame fra arte e esistenza, vite irrisolte.

D’altronde è un libro che va letto su una chiave parecchio personale e soggettiva, sebbene sia scritto in modo molto accorto e l’autore sia sempre un maestro nel calibrare le cose da dire, mettendole anche in un ordine tutto loro che ce le fa apparire sotto una luce di significato ancora più nitida. Però la storia è molto esile, i personaggi arriviamo a conoscerli per un soffio, giusto il tempo dei due giorni di cui è composto il finesettimana in questione. Lyle, critico d’arte rimasto solo dopo la morte del compagno di lunga data, visita la casa fuori New York del fratello di lui e della moglie, portandosi dietro la nuova, giovanissima fiamma: il disagio sarà palese fin dall’inizio e tutti i coinvolti non faranno a meno di far precipitare, ognuno a suo modo, le cose.

Tutto qui, dunque, sul piano narrativo. Ma ciò che questo romanzo fa è parlare delle e alle esperienze che molti possono avere avuto: dice di come non possiamo lasciarci alle spalle i nostri morti, di quanto sia complicato convincerci che gli altri possano essere felici nonostante la nostra insofferenza o infelicità, di come siamo sempre troppo giovani, fragili o diversi per accettarci o essere accettati fino in fondo, di come una volta che alle nostre esistenze vogliamo far prendere delle curve poi difficilmente riusciremo a raddrizzarle o a farcele raddrizzare. Due giorni, due giorni soltanto passati in mezzo a semisconosciuti possono mettere in luce tutta la nostra incapacità di adattarci agli altri e allo stesso tempo mostrare a noi stessi – e solo a noi – quanto poco siamo in equilibrio.

E la lezione finale riguarda appunto l’equilibrio più sottile, quello dell’amore. Cameron è molto lucido a riguardo, e questo non può che essere frutto di un trascorso identitario ben preciso: l’amore non esiste, sembra voler dirci fondamentalmente, anche se questa sua inesistenza ce lo rende ancora più essenziale; non esiste eppure noi amiamo lo stesso, facciamo finta, pretendiamo di farlo, dobbiamo per forza riferire ad esso, ovvero costringere dentro la sua etichetta, qualsiasi esperienza viviamo. Questo libro parla anche molto di come si vive l’amore in anni della vita diversi, soprattutto quando la coppia ha grande differenza di età al suo interno (e fra i gay capita spesso): anche questo amore è per certi versi impossibile, in quanto i giovani non sanno cos’è l’amore perché vorrebbero essere già arrivati in fondo al viaggio che esso comparta, mentre i più maturi sono talmente disincantati da non poter dare tutte quelle certezze di cui l’altro avrebbe bisogno.

Cosa resta, alla fine? La sicurezza, forse, che tutti i weekend, anche quelli più orrendi, passano. La vivida sensazione che per quanti sforzi faremo per dar ordine alle cose queste ci sfuggiranno di mano in modi imprevedibili, oppure prevedibilissimi (Marian, la madre ossessionata dalla salute del figlio e rincorsa dai suoi demoni depressivi, ne è la lampante – fastidiosa – dimostrazione). Il weekend è una specie di storia che ti scortica e poi lascia la tua ferita lì, a bruciare e impolverarsi, mentre tu ti poni domande di cui non vorresti sapere le risposte troppo presto. Perché in fondo è un libro che non finisce e spegne l’interruttore proprio nel momento in cui il lettore si stava abituando alla luce della stanza. Cameron in questo è fortemente, e convincentemente, modernista.

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ps. Due brevissime note linguistiche, infine: la traduttrice Giuseppina Oneto è quasi sempre molto accurata, solo ci si chiede come mai, volendo marcare il linguaggio spesso un po’ stentoreo del giovane Robert, gli metta in bocca la frase-tic “Sta bene”, né giovanile né sgrammaticata (qui, a dir la verità, bisognerebbe controllare meglio l’originale); in secondo luogo non posso fare a meno di interrogarmi sull’usanza, tutta adelphiana, di usare la grafia accentata “sé stesso/a” – avranno anche le loro ragioni, ma la lettura sobbalza inevitabilmente.

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