L’atelier e l’arte contro la solitudine

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Metropoli d’Asia è una piccola casa editrice che, come dice il nome, è specializzata nello scovare e tradurre in italiano la letteratura dell’Estremo Oriente: il suo fondatore, Andrea Berrini, vive per la maggior parte dell’anno in Asia a fare scouting degli autori più promettenti. Fra quelli che ha lanciato più di recente c’è Yeng Pway Ngon, giornalista, poeta e romanziere di Singapore. Uno dei suoi ultimi romanzi, L’atelier, ha avuto parecchi riconoscimenti internazionali (Asia Weekly l’aveva inserito nella top ten dei migliori libri asiatici del 2011) e agli occhi dei lettori italiani risultata un libro affascinante e insolito. Perché con l’espediente di riunire una serie di personaggi in uno stesso studio per aspiranti pittori, dipana poi le loro vite più o meno complesse attraverso più di vent’anni di storia singaporeana, dagli anni Settanta in poi, e seguendo i loro spostamenti anche nei Paesi contigui.

Abbiamo incontrato Yeng Pway Ngon al Festivaletteratura di Mantova, dove ha parlato della sua scrittura venerdì 5 con Elisabetta Bucciarelli. L’arte nel suo romanzo è appunto una specie di pretesto per raccontare qualcosa d’altro, ma l’autore ne è tuttavia un sincero appassionato: ” Amo la pittura, da ragazzo sognavo di diventare pittore, però tele e colori costavano troppo, quindi ho ripiegato sulla poesia. Ma il fatto di riunire più persone in un atelier era uno spunto che mi affascinava.” Nella storia si incrociano le esistenze di personaggi molto diversi fra loro, si incontrano le varie etnie che popolano la città-stato insulare (la maggior parte della popolazione è cinese, ma ci sono anche malesi e indiani), si dipingono le difficoltà – più passare che attuali – di vivere in una nazione così peculiare: “Il mondo di Singapore può sembrare un mondo esotico per i lettori italiani, ma quello che descrivo in realtà è proprio il mio mondo, quello che ho vissuto e vivo ogni giorno. Anche il mix di culture che descrivo è molto comune: il mio è un Paese di immigrati, dalla società molto mobile che in questi anni ha lottato molto contro ogni tipo di discriminazione, sia razziale che religiosa“. Ma nel libro ci sono anche molti riferimenti all’arte (Van Gogh, Cezanne) e alla letteratura (Defoe, Dostojevski) europee: “Ecco, quello per i miei lettori è il vero esotico. Infatti quando la trama è ambientata a Parigi o in Spagna le mie sono descrizioni da turista“.

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Uno dei temi principali del romanzo è sicuramente l’amore, spesso vissuto come una difficoltosa lotta contro la solitudine e le avversità. Uno degli apprendisti pittori, ad esempio, Sixian, viene lasciato dall’amata Ningfang che si trasferisce in India, ma non cercherà mai di aspettarla; la sfortunata Meifen, invece, soffre per l’improvvisa fuga di Jianxiong, dissidente che si unisce alla guerriglia comunista nella foresta: “Volevo raccontare vari atteggiamenti in cui si presenta e si vive l’amore. Se si ama davvero, d’altronde, è ovvio che si avranno delle ferite, per amare ci si deve comunque mettere nella predisposizione d’animo di essere feriti“. Proprio quella di Jianxiong è una delle vicende più intense e poetiche del libro: fuggito a un’imboscata nella foresta, il ragazzo si trova sperduto e inizia una convivenza di isolamento e poi paranoia con un altro fuggiasco, il Barba, ricostruendo una società lontana dal mondo sul modello di Robinson Crusoe e Venerdì: “Mi affascinava molto descrivere i rapporto fra i due, come potessero interagire in un ambiente così difficile e pieno di nemici: l’esercito nazionale, i ribelli, gli animali della giungla. Era un altro modo per raccontare una solitudine estrema e commovente”.

L’atelier affronta però in sottofondo anche le complessità di un Paese come Singapore, ex colonia britannica indipendente da appena una cinquantina d’anni, che ha goduto di un’impressionante crescita economica forse a discapito di uno sviluppo altrettanto armonioso dei diritti e delle libertà. Tuttavia lo scrittore, lui stesso arrestato nel 1978 perché sospetto di sovversione, ammette che molti problemi accennati nel libro – il dissenso comunista, la malavita, la repressione dei contestatori – appartengono più al passato che al presente: “Chi faceva parte di quel tipo di contestazione ormai è vecchio e non dà più fastidio. Piuttosto oggi le rigidità del Governo sono messe in discussione da un nuovo tipo di contestatori: sono i giovani soprattutto di educazione occidentale, che hanno viaggiato e usano internet come arma per sfuggire al controllo della libertà di espressione”. Nel libro si fa accenno anche al spesso controverso rapporto fra i media e la cultura, quando si vede un pittore improvvisato come il ricco Ye Chaoqun comprarsi il favore di giornalisti e critici, mentre il venerando maestro Yan Pei viene da loro completamente ignorato: “Il rapporto coi mezzi di comunicazione è sempre complicato, e lo è in particolare a Singapore dove ci sono un solo giornale di lingua inglese e un solo giornale di lingua cinese. Una volta conquistato il favore di quelli, è automatico acquistare fama e divenire artisti di rilevanza nazionale. Avere opinioni discordanti da quelle è difficile“.

L’atelier è interessante proprio per questo suo mescolare sapiente di temi più o meno seri e di vite più o meno significative. Lo stile può apparire, a chi non è abituato a questo tipo di letteratura, a tratti piatto e lento, ma in realtà nasconde una stratificazione linguistica molto complessa. Come racconta la traduttrice del libro, Barbara Leonesi, la lingua originale, il cinese, è spesso venata da altri dialetti, in particolare il cantonese, ma racchiude anche tantissimi riferimenti all’opera, alla musica e alla cultura della Cina meridionale. Ammette lei: “Ho dovuto leggere come minimo una ventina di libri per tradurre questo. E Yen Pway Ngon con la sua ironia mi ha detto: almeno hai imparato qualcosa di nuovo”.

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